Rimini 30 Settembre - 3 Ottobre 1999
Un partito liberaldemocristiano di ispirazione cristiana
Cara Presidente.
Care amiche ed amici delegati,
questa nostra assemblea, se straordinaria non è nelle forme e nei tempi, come ha detto il segretario, lo è certamente per le responsabilità che la gravano in ordine ai nostri destini e al destino del Popolarismo.
Piombati come siamo nell'angusta dimensione di un partito che vive ormai sulla soglia del rischio della sopravvivenza, finiamo per oscillare, senza trovare ancora il bandolo per risalire questa china, tra grandi discorsi enciclopedici, come se dipendesse da noi il governo del mondo, e tante ingannevoli illusioni. Quelle, per esempio, che basti trovare comunque nuovi compagni di strada, senza porci prima il problema della meta che vogliamo raggiungere e l'altra che basti cambiare il gruppo dirigente, o l'altra ancora che basti cambiare almeno il segretario, che se poi fosse del Nord risolverebbe, per ciò stesso, la gran parte dei nostri problemi.
Ho partecipato, qualche giorno fa, all'assemblea dei Popolari lombardi. Sono stato lì, spinto soltanto dalla speranza di poter contribuire a rinsaldare la consapevolezza della preoccupazione nella quale dobbiamo fondere Nord e Sud: la preoccupazione sulla vita e sulla sopravvivenza del nostro partito, perché, dissi agli amici lombardi, se Atene piange Sparta non ride. Il Mezzogiorno, sul quale spero non peserà come colpa il fatto di avere ancora qualche consenso in più, vive anch'esso giorni che non lasciano intravedere futuri rosei nell'orizzonte dei popolari.
E così, tra un'illusione e un'altra, ci rifugiamo un po' tutti nella giaculatoria della nostra identità, senza accorgerci che non riusciamo a destare, con questi stanchi richiami, l'attenzione dell'opinione pubblica, la quale, purtroppo, sembra oggi sensibile quasi solo alla comunicazione che veste i panni dell'antipolitica. In Parlamento e non, abbiamo tanti politici che "bucano", come si dice, perché sono portatori di messaggi contro la politica. Mi riferisco a Silvio Berlusconi e a Emma Bonino e mi fermo a questi due nomi, tralasciando per amore di coalizione quelli di chi pure convive con noi nell'alleanza di centro-sinistra.
La verità è che noi, cari amici, non abbiamo ancora superato il trauma che ha inciso sulla nostra carne, sulla nostra esistenza, sul nostro essere: il trauma che noi abbiamo subìto, e con noi ha subìto la democrazia del nostro Paese, agli inizi degli anni novanta nei quali si è verificato come una sorta di big-bang, che ha determinato una ricollocazione delle forze politiche - e delle schegge in cui si sono frantumate - più secondo il caso che secondo le ragioni della storia.
Secondo il caso, ho detto; ma in realtà - ne parleremo più avanti - non è stato soltanto il caso di incidere sui ridimensionamenti e sulle ricollocazioni delle forze soltanto il caso ad incidere sui ridimensionamenti e sulle ricollocazioni delle forze politiche. Il malessere covava da anni: da anni ci si ripeteva che c'era una condizione di distacco, di scollamento delle istituzioni dalla società; da anni ci si esercitava vanamente sul tema del riordino delle istituzioni. Sono intervenuti, poi, fatti che hanno determinato, nella realtà del nostro paese, un'accelerazione e modi di cambiamento e di enfatizzazione di questa crisi, che hanno finito per mistificare storie e per garantire soltanto alcune posizioni al di fuori di ogni seria riflessione.
Nel nostro Paese la fine del comunismo ha rappresentato la rottura di una chiave di volta che in qualche modo reggeva il sistema. E alla fine del comunismo si è aggiunta la vicenda tutta nebulosa, che ha avuto una grande incidenza nel nostro Paese: "tangentopoli".
Voglio ripetere qui una mia convinzione: noi vivevamo in un tempo e in una condizione di grave ottundimento nel senso della morale pubblica. Dobbiamo dirlo con forza, il "craxismo" aveva sparso i germi di una nuova e troppo disinvolta etica pubblica, che ha contaminato anche settori della nostra esperienza democratico-cristiana. Ma "tangentopoli" non è stata soltanto la fine di questo ottundimento, è stata tante altre cose insieme. È stata anche, dobbiamo dirlo, un intervento esterno che in alcune realtà e verso alcuni obiettivi ha avuto valenza di intervento politico.
Abbiamo assistito al fenomeno della emulazione delle procure. In questa condizione di spettacolarità, in una sorta di concorrenza, abbiamo visto travolgere colpevoli e reprobi, ma abbiamo visto dovunque travolgere anche, e in misura di gran lunga superiore, tanti innocenti, che sono stati impediti da allora a impegnarsi e a essere utili alle istituzioni e al nostro partito.
Io vorrei ricordare qui e sottoporre alla vostra riflessione soltanto un dato: tra il '90 e il '95 si è verificato un incremento vertiginosamente patologico dell'esercizio di azione penale per un reato, l'abuso di ufficio, in sé vago ed indefinibile. Nel '90 le statistiche evidenziavano non più di mille azioni penali esercitate; nel '95 sono salite a diecimila: diecimila processi per abuso di ufficio! E questo è il segno di una patologia grave del sistema, sulla quale noi non abbiamo riflettuto e sulla quale oggi dobbiamo riflettere.
Le condanne sono state circa trecento. Ma questo non è un dato che ci rassicura, perché le condanne vere sono state quelle pronunciate dall'opinione pubblica al tempo dell'annuncio di questi processi, e la irreversibilità di quelle condanne non è stata ripagata nel tempo dalle sentenze dei giudici.
Abbiamo gioito per le assoluzioni di Giulio Andreotti che ha saputo dare una grande lezione di stile con la capacità di accettare una giustizia che non dava sempre il senso e il segno di una sua autentica imparzialità.
Proprio la saldatura tra il caso Andreotti e tangentopoli ha permesso a molti di rilanciare l'interpretazione storiografica che va sotto il nome di "doppio stato", che è accusa alla quale non abbiamo saputo reagire nella giusta maniera e sulla quale la riflessione non è ancora conclusa. Credo che dobbiamo essere grati oggi a un nostro parlamentare, il collega Follieri, il quale in questi giorni ha depositato alla Commissione Stragi la relazione che ricostruisce quegli anni e che contrasta, con lucidità e con documentati argomenti, la teoria del "doppio stato", cioè la mistificazione più sottile della storia di questi cinquant'anni e della nostra esperienza di democratici-cristiani.
Dobbiamo partire dall'orgoglio della nostra appartenenza alla democrazia Cristiana, comprendendo contemporaneamente le ragioni per le quali noi riteniamo superata la nostra stessa esperienza di democratici-cristiani, ma senza avere sensi di colpa.
Anche sotto l'incalzare di tali avvenimenti, noi decidemmo di fondare il Partito Popolare, e questa decisione doveva aiutare la trasformazione della politica. E invece noi abbiamo finito per vivere la nascita del Partito Popolare come un rito sacrificale, come una sorta di suicidio catartico che ci doveva liberare da colpe che non avevamo senza la piena consapevolezza delle ragioni profonde per le quali il nuovo partito nasceva.
Abbiamo affrontato anche questo cammino in qualche modo convinti che, liberati dalle colpe della Democrazia Cristiana, potessimo continuare a far politica pigramente fidando nella automaticità del consenso e confidando sul fatto di essere ancora il partito dell'unità dei cattolici.
Ci siamo illusi di poter essere ancora espressione dell'unità dei cattolici e difensori della libertà, ormai non più minacciata come negli anni '50. ma l'atlantismo, l'europeismo, e l'interclassismo, un tempo bandiere nostre, non servivano più a creare consenso, paradossalmente, proprio per merito nostro per la capacità cioè, che ha avuto la Democrazia Cristiana di far capire a tutti la saggezza dell'interclassismo ed il valore dell'europeismo e dell'atlantismo.
La nascita del Partito Popolare, cari amici, doveva rispondere ad altre, e più alte, ragioni: non abbiamo capito, giova ripeterlo, che i consensi dovevamo andarli a riconquistare, che non ci sarebbero arrivati né per eredità, né sbandierando complessi di colpa.
Dovevamo affrontare e saper spiegare con maggiore convinzione le ragioni che erano alla base della nascita del Partito Popolare, secondo le interpretazioni che ne dettero (chi di voi era nell'assemblea dell'EUR del gennaio del 1994 lo ricorderà) Gabriele De Rosa e Mino Martinazzoli.
Ma noi, in questo tempo, non abbiamo adeguatamente scavato, approfondito, e assunto come metro della nostra azione pubblica quelle ragioni.
E quelle ragioni erano tutte nella trasformazione politica, della dimensione politica.
Alla fine del millennio stiamo assistendo al superamento dell'idea di stato ed al superamento della dimensione politica come da noi fin qui conosciuta; questo millennio, che si è aperto nel tempo della vivacità del pluralismo medioevale, della pluralità istituzionale, della società comunque più forte di ogni istituzione politica; questo millennio che ha visto poi l'evoluzione della costruzione dello Stato, fino alle vette negative dello Stato etico della concezione hegeliana o dello Stato oppressore della concezione marxista; questo millennio sta ora per chiudersi con una grande novità: l'affievolimento della dimensione statale, frutto, conseguenza della internazionalizzazione di tutti i processi, di tutte le dimensioni.
Ma proprio questo tempo ci riconsegna la necessità di riguardare al pluralismo delle autonomie locali, al pluralismo degli organismi della società, all'individuo ed alla famiglia che preesistono allo Stato, e che debbono costituire il riferimento prioritario di ogni azione politica.
Il pensiero di Sturzo è tutto qui. Il suo pensiero è nel rapporto nuovo tra Stato e società. E quando Sturzo profetizzava queste cose era uno straordinario anticipatore, perché si era nel pieno delle concezioni catastroficamente eticistiche dello Stato. Così come rivoluzionario era il richiamo all'ispirazione cristiana in politica ed ai princìpi della liberaldemocrazia come pilastri fondanti la sua proposta politica: e queste erano convinzioni che significarono e significano ancora autentica modernità.
La Democrazia Cristiana nei suoi cinquant'anni di vita è stata molto condizionata dal contesto internazionale ed interno che l'ha costretta al ruolo di gendarme delle libertà ad antagonista del comunismo, facendole però assumere i caratteri di partito-sistema. Oggi con il partito popolare noi vogliamo e possiamo tornare a Sturzo ed alle Sue attualissime ed originali idee.
L'ispirazione cristiana, di questo sono convinto, dobbiamo assumerla come dizione che sostituisca quella che noi troppo spesso adoperiamo di cattolici democratici; perché l'ispirazione cristiana dice qualcosa che è più forte e più laico insieme. È, come dire, l'indicazione di una cornice di valori nell'ambito della quale noi possiamo avere la speranza di ricondurre anche chi è ancorato a quei valori non in virtù del dono della fede.
Quanto alla liberaldemocrazia, giova qui brevemente ricordarlo, il nostro stato è nato da una lacerazione tra culture liberaldemocratica e modo cattolico, e questo ha segnato negativamente le sorti del nostro Paese. Per queste ragioni, da noi, l'etica pubblica non ha potuto mai trarre linfa dall'etica religiosa, com'è avvenuto in altri Paesi, nei quali il senso della nazione si è irrobustito in questa ispirazione e ha tratto linfa dall'ispirazione religiosa: come è capitato, per esempio, negli Stati Uniti d'America e in Inghilterra.
Noi abbiamo oggi il compito e il dovere di riavvicinare queste culture, operando per sconfiggere quell'antica vena di anticlericalismo che c'è ancora in gran parte del mondo liberaldemocratico italiano.
Questo è il nostro compito, questa è la nostra speranza.
L'ispirazione cristiana deve essere un riferimento alto ai valori, a prescindere dall'appartenenza alla Chiesa Cattolica, perché non è immaginabile, che una società possa mantenersi unita se assume una neutralità di valori, se abbraccia una concezione di tolleranza a trecentosessanta gradi. Noi dobbiamo cercare di ricondurre su queste basi e su queste tracce l'impegno nostro, che sia coinvolgente anche di altre posizioni.
Quando sento parlare di "centro degasperiano", di questo gruppo spesso indistinto e nebuloso "centro degasperiano", dico che potremmo realizzarlo ad una sola condizione: di trovare, cioè, la concordanza di tutti, cattolici e non, sulle linee che ho appena tratteggiato. Forse in questa prospettiva potrebbe dirci qualcosa il Croce che, nel tempo più buio dell'Europa, scrisse quel celebre saggio "Perché non possiamo dirci cristiani", a significare la necessità e la possibilità di ritrovarsi sulle grandi ragioni dei valori della civiltà cristiana tutti, laici e cattolici.
Se rileggete l'appello di Sturzo "Ai Liberi e Forti", noterete che non usa mai la parola cattolicesimo, che non fa mai riferimento ai cattolici; fa, invece, riferimento alla forza civilizzatrice del Cristianesimo, parla della forza delle genti cristiane come fattore unificante, laicamente unificante.
A questo noi dobbiamo puntare, così come dobbiamo nutrire più fortemente il nostro impegno liberaldemocratico che implica l'accettazione dei valori profondi degli ordinamenti liberali.
Ho citato altre volte pensatori del nostro tempo che sono oggi esaltati come opinion-leaders. Molto spesso si nutrono delle ragioni e delle idee di Sturzo, della sua interpretazione del rapporto tra Stato e società, che noi dovremmo saper seguire ancora oggi.
La critica che Dahrendorf rivolge per esempio alla socialdemocrazia, muove dalla considerazione che essa sia qualcosa di arretrato culturalmente rispetto alla condizione del nostro tempo, perché essa ha ancora la pretesa di proporre soluzioni sistemiche laddove invece è soltanto nella libertà delle articolazioni che può esprimersi la vivacità di una società, tenendo bene a mente che a questa nuova società, sotto qualunque latitudine, la politica da sola non può più dare risposte esaustive, perché la politica non ha più la centralità di un tempo e le sue risposte non possono soddisfare ogni bisogno.
Queste erano le premesse dalle quali avremmo dovuto avviare una nuova stagione politica, invece...
Invece poi sapete qual è stata la storia, meglio dire la cronaca, di questi cinque anni del Partito Popolare.
Martinazzoli immaginò che noi potessimo reggere come polo autonomo e ci tuffammo nell'esperienza elettorale del 1994. E la sua troppo esigente autocritica lo portò ad abbandonare il campo con un risultato che, visto da oggi, ci sembra da età dell'oro.
E poi c'è stata la vicenda Buttiglione che ci ha dimezzato e che ci ha mortificato mentre era il tempo di crescere e di rafforzarci. Fu fatta allora la scelta di stare nell'alleanza di centro-sinistra.
Caro segretario, questa è una scelta che noi tutti abbiamo fatto con grande naturalezza, pur nella consapevolezza di dover pagare dei costi. Ma non è a questa scelta che si legano le ragioni dell' ostilità che ci circonda, non è a questa scelta che si lega anche un certo atteggiamento livoroso della stampa. La stampa finisce per essere l'emblema della, direi, crudeltà di questo nostro tempo, che non risparmia i deboli. La stampa è livorosa verso di noi nel momento in cui coglie in noi stessi una realtà incapace di esprimere una sua ragion d'essere. Non è in discussione la scelta di centro-sinistra, della quale siamo tutti partecipi e sulla quale siamo sostanzialmente concordi, anche se, occorre ricordarlo, tutti riconosciamo che le alleanze non sono atti di fede, ma decisioni legate alla contingenza storica.
Dopo quella scelta abbiamo avuto la speranza e il sogno di Prodi, che è stata speranza condivisa, anche questa, da tutti. Ma, dobbiamo dircelo, per amore di verità, questa speranza e questa aspettativa hanno avuto come riscontro una grande delusione perché Prodi aveva un disegno diverso che non coincideva con il nostro. Prodi, nonostante i generosi inviti di Bianco prima e di Marini poi, aveva delineato come suo progetto politico altre strade, che sono strade diverse dal Popolarismo.
Questo voglio dire a Pierluigi Castagnetti, perché questo è, a mio avviso, un nodo centrale che il dibattito di questo congresso deve sciogliere se vogliamo farci capire da chi è fuori di questa sala.
Quando nel dibattito sulle compagnie che dovrebbero rafforzare il nostro cammino, noi ci auguriamo di poterci ritrovare insieme, come ha detto ieri Marini, da Prodi a Cossiga, dobbiamo chiederci: a quali condizioni? Su quali progetti?
Possiamo sperare nella ricomposizione se Prodi e i suoi abbandoneranno la convinzione che la risposta ai nostri problemi è il partito unico del centro-sinistra, soluzione che, a mio avviso, dovremmo continuare a ritenere la negazione di quella flessibilità che è nella natura del Popolarismo. Non è, caro Enrico Letta, soltanto l'orgoglio di preservare una storia. C'è una ragione più profonda nel rifiutare l'ipotesi del partito unico e dell'irrigidimento della lotta politica in uno schema bipartitico e maggioritario: è un fatto culturale, non è la semplice difesa della nostra storia o di una nostra convenienza contingente. E Prodi ha scelto un'altra strada.
Ma anche allora, nel 1996, ci siamo illusi e ci siamo cullati. Prodi, un cattolico alla Presidenza del Consiglio, sembrava un nostro successo mentre avremmo dovuto capire che quello era tempo di intraprendere un nostro autonomo cammino per affermare realmente le nostre ragioni.
Il trauma del passaggio da Prodi a D'Alema ci ha messo di fronte alla fine di una illusione, ma non certo fatto venire meno le ragioni della nostra presenza sullo scenario politico del nostro Paese. Nel momento in cui ci hanno tolto o ci siamo tolti i paraocchi, sarebbe occorsa una rafforzata capacità di affermare la nostra presenza, invece, non abbiamo avuto iniziativa, non siamo stati in grado di impegnarci su un progetto che guardasse oltre il quotidiano.
E così abbiamo dato la sensazione di esserci appagati della dimensione di gruppo elitario che si contenta di testimoniare, di testimoniare un passato, condizione che non può interessare né i giovani, né gran parte del nostro elettorato. Oppure abbiamo finito per scegliere la strada di un prudentismo opportunistico.
E non voglio parlare delle chiusure e delle strozzature del dibattito che pure ci sono state nel nostro partito; perché questo è un discorso che avrebbe bisogno di più tempo; qui mi limito a ricordarlo alla vostra attenzione. Nel tempo in cui tutti abbiamo predicato la necessità di ridurre la partitocrazia (anche questo era un tema forte e caro al pensiero sturziano), noi abbiamo invece realizzato una condizione di centralismo verticistico, come mai si era realizzata nel nostro partito, dove - come ho detto prima - non c'è stato reale dibattito sui temi più importanti; dove le grandi decisioni, le scelte strategiche ci sono state annunciate; ma solo poche volte siamo stati chiamati a concorrere ad esse! Penso per esempio al cambiamento di posizione sulla riforma elettorale maturato in qualche ora della notte chissà fra chi e perché! Guido Bodrato si è dimesso da direttore de Il Popolo per protestare non soltanto sul merito in alcune scelte in materia di sistema elettorale e di politica istituzionale in genere, ma anche sul metodo, perché neanche lui aveva capito chi, dove e quando aveva preso certe decisioni. Così si sostiene oggi sui giornali che noi siamo (ma chi lo ha deciso? I gruppi parlamentari ne hanno discusso? E la direzione?) per il sistema cosiddetto Amato-Villone, che mi pare, è il peggiore dei sistemi di doppio turno che noi possiamo immaginare, non soltanto per la nostra sopravvivenza ma per quella di alleanze che noi vogliamo forti, forti soprattutto della diversità delle culture.
C'è stata una puntuale compressione del pluralismo e del dibattito, anche nelle articolazioni del partito. Mi riferisco, per esempio ai gruppi parlamentari, che sono stati compresi in tante occasioni nella loro capacità di libere scelte.
Non abbiamo saputo parlare al ceto medio.
Caro segretario, riferirsi al ceto medio non significa, come hai affermato, far della sociologia d'accatto, perché il ceto medio è qualcosa di più complesso. Il ceto medio è una categoria innanzitutto etico-politica, non e soltanto una categoria sociale ed economica. Il moto della storia ha sempre oscillato tra il conservatorismo e il rivoluzionarismo, ma è andato avanti per la forza e la capacità del moderatismo.
Ceto medio è quella mezzana gente che, lo dico agli amici toscani, uno scrittore fiorentino di qualche secolo fa esaltava come la sola capace di realizzare il santo governo e la santa giustizia!
Riferirsi al ceto medio, significa riscoprire le ragioni che un grande cattolico democratico, Arturo Carlo Jemolo, sottolineò ne "L'elogio del piccolo borghese", che scrisse nel tempo in cui la forza iconoclasta della cultura marxista si rivolgeva contro questo concetto. Jemolo scrisse in quel saggio parole forti sul senso e sul valore del piccolo borghese, concludendo che alla sua morte, avrebbe voluto che sulla sua tomba scrivessero: "qui giace un piccolo borghese".
Fare riferimento politico al ceto medio significa avere forte il senso della moderazione, della quale moderazione è intriso l'appello di Martinazzoli del '94.
Rileggiamolo, rileggete quell'appello che fa della moderazione, che è cosa diversa dal conservatorismo, il senso e la cifra di noi popolari. E noi questo non abbiamo saputo interpretarlo. Non abbiamo saputo mai galvanizzare i nostri militanti e i nostri potenziali sostenitori su una proposta, su un'idea, che fosse sostenuta con la forza serena ma decisa di chi sa di avere dalla sua grandi ragioni e grandi idee.
E potrei citare ancora tanti episodi e fatti che sostanziano il mio giudizio negativo sulla segreteria Marini.
Abbiamo finito per incrociare con leggerezza, ed uso un eufenismo, il dissenso del mondo cattolico e della gerarchia cattolica, infilandoci, con una straordinaria incapacità di guardare ai problemi, su diatribe come quella sulle coppie di fatto, sulla fecondazione eterologa, sui comportamenti sessuali, come se il mondo cattolico non fosse ancora un mondo al quale noi dobbiamo guardare come ad un referente imprescindibile; accettando e avviando polemiche che hanno nuociuto alla nostra immagine e, posso dire, anche alla cassa dei nostri voti.
E così, settimana dopo settimana, passo dopo passo, abbiamo finito per accettare di tutto, anche la presenza di Di Pietro nella coalizione che si siamo paradossalmente incaricati di difendere a nome dei nostri alleati diessini che, lo sappiamo, nel collateralismo con una certa parte della magistratura hanno tratto ragioni di non poca forza. E noi, calpestando sacrosante ragioni egoistiche, ma soprattutto calpestando le ragioni alte della politica, abbiamo ingoiato con grande indifferenza, anzi abbiamo giustificato all'esterno, come spesso ci è capitato di fare, anche la candidatura di Di Pietro al Senato.
Abbiamo troppo spesso subito le scelte, e nelle alleanze si possono talora finanche subire le scelte, cari amici, ma guai ad assumere la difesa con un improvvido zelo che fa diventare nostre ragioni che nostre non sono.
E potremmo parlare della politica delle istituzioni, che per chi, come noi, parte dal pensiero di Sturzo, non poteva e non può essere la politica di uno Stato che deve garantire e riconoscere flessibilità e pluralismo.
E che dire della giustizia? Ho sentito ieri, nella relazione del Segretario parole sul pentitismo, che sono ragionamenti buoni per una conservazione da salotto. Noi, invece, abbiamo il dovere di dare indicazioni precise su questo tema. Noi Popolari dovremmo avere sul tema due punti fermi: il pentitismo è strumento fondamentale, ma non nella versione inflazionata che ha conosciuto il nostro Paese, e va regolamentato come negli altri Paesi, che a questo strumento hanno fatto ricorso; la modifica dell'art. 192 del codice di procedura penale non può essere ragione di scandalo, ma necessità assoluta. Non possiamo gioire oggi per il fatto che Andreotti è stato assolto, senza porci il problema istituzionale di trovare il modo per evitare il ripetersi di queste gravi distorsioni.
E poi parliamo della Bicamerale. Certo, Berlusconi ha dato sostanziosi contributi all'affossamento della Bicamerale. Ma perché non dire che sul tema della giustizia c'eravamo spesi anche noi, sostenendo tesi mai in contrapposizione con la nostra storia. Alcuni amici mi hanno suggerito di essere prudente sul tema giustizia. Li deluderò non voglio, proprio oggi e davanti a voi, sentirmi come una sorta di indagato, che non può parlar di giustizia senza ingenerare sospetti nei benpensanti, per il solo fatto di sostenere alcuni elementari princìpi liberaldemocratici!
Noi avevamo ipotizzato e sostenuto (pensate quale fatto eversivo!) la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, che è la condizione minima per poterci chiamare liberal-democratici. Ho fatto scandalo, abbiamo fatto scandalo a sostenere questa tesi, ma, permettetemi di dirlo, c'è stata al nostro interno, una tale involuzione (questa sì da fare scandalo) che ha fatto dimenticare ai più che la separazione delle carriere è uno dei punti forti del programma che ha accompagnato la nascita del Partito Popolare; è uno dei punti di forza del programma che ha accompagnato l'appello di Martinazzoli all'assemblea dell'EUR, a Roma, nel gennaio 1994.
Io credo che le garanzie più vere e più forti per una giustizia di uguali, per una giustizia imparziale, siano i momenti ordinamentali. E la separazione delle carriere dovrebbe essere, dovrà essere punto qualificante per una forza politica che non chiede rivincite, ma che, alla luce del quadro distorto e preoccupante che la magistratura troppo spesso offre di sé, e che è sotto gli occhi di tutti, sostiene queste ragioni con grande serenità: non per rivalsa ma per un più ordinato futuro.
E se queste ragioni avessimo sostenuto, con forza e con convinzione, anche in Bicamerale, forse quella vicenda avrebbe avuto altro esito, e noi avremmo dato un contributo non soltanto alla nostra visibilità, ma un contributo sostanziato della nostra cultura, un contributo alla soluzione di un grave ed importante problema del nostro Paese.
L'elenco delle cose negative che si raccolgono nei conversari tra colleghi parlamentari o visitando le sezioni del nostro partito potrebbe essere ancora lungo: la vicenda del Quirinale, per esempio che ha segnato un momento di mortificazione del partito, non per la sconfitta, ma per il modo insieme arrogante e furbo col quale abbiamo preteso di imporre un candidato senza mai spenderci fino in fondo, fidando solo sulla astratta pretesa che la suprema magistratura del Paese toccasse ancora ad un cattolico.
Ora al Quirinale un cattolico c'è, ma non è quello ipotizzato dopo supposti accordi o patti: a lui, al Presidente Ciampi, va il mio deferente saluto.
E poi ancora, il giorno dopo questa pagina brutta e difficile per noi, non abbiamo saputo inventare null'altro che un anti-atlantismo che sapeva e sa di piccola ripicca. Un sussulto pacifista tardivo e inutile, perplessità che i nostri alleati occidentali non hanno tardato ad interpretare per quel che era e l'opinione pubblica a considerare come una manovretta ritorsiva.
Io mi fermo qui.
Si dice che l'identità nasce dalle grandi ragioni, ma poi deve tradursi nel programma; e il programma è quello che si riesce a far vivere.
Prendiamo ad esempio il dibattito sulla riforma dello stato sociale. Credo che la nostra cultura possa dettarci le soluzioni più giuste e aiutarci a sgomberare il campo da un equivoco: che il problema, cioè, sia tutto nella necessità del contenimento della spesa pubblica o nella necessità della ridistribuzione del reddito tra le fasce sociali o tra vecchi e giovani.
Il problema dello stato sociale, invece, lo dobbiamo affrontare nell'ambito del discorso sulla riforma istituzionale, perché la riforma istituzionale non è soltanto la riforma della prima parte della Costituzione.
Riformare lo stato sociale significa, infatti, creare i meccanismi istituzionali perché sia garantito il pluralismo dell'offerta nei servizi pubblici, fermo restando ovviamente che lo stato deve assicurare il soddisfacimento dei bisogni essenziali. Riforma istituzionale significa capire l'importanza di difendere, per esempio, gli ordini professionali, depurati dalle incrostazioni corporative - come momento di libera organizzazione della società. Anche così si rende più concreto e più attuale il popolarismo. Queste sono quindi le ragioni lungo le quali noi possiamo darci un futuro.
Da ultimo ma certo non meno importante il discorso sul partito.
Ho fatto il segretario regionale molti anni fa, ho avuto poi la ventura di essere uno dei venti coordinatori al tempo della esperienza ricostruttiva del partito popolare: oggi sento di dovervi dire che non possiamo continuare a recitare la giaculatoria del regionalismo. È tempo che si dica con grande franchezza e che si scrivano due regole: il segretario è eletto dal congresso, come sintesi della nazionalità del Partito popolare, ma gli organi, tutti gli organi, devono essere espressione delle realtà territoriali, che hanno il diritto di organizzarsi in una autonomia, appunto organizzativa e politica. L'esperienza realizzata a Trento dal raggruppamento che si è dato nome "Margherita" è un dato al quale dobbiamo guardare, per il valore della sperimentazione, con l'interesse verso la capacità che quegli amici hanno dimostrato, sapendo adeguare il momento organizzativo e il momento politico alle necessità vere del territorio. Essere noi partito del territorio, secondo la tradizione sturziana, significa e deve significare soprattutto questo.
I programmi non si scrivono, diceva Sturzo, ma si vivono. Le idee praticate nel concreto, quotidianamente, fanno l'identità del partito e costituiscono anche il patrimonio che portiamo all'arricchimento dell'alleanza. Ed è su questi princìpi che dobbiamo verificare la possibilità di convergenza con le altre forze politiche.
In un'alleanza politica ci si trova partendo da posizioni diverse dopo aver realizzato la convergenza sulle cose da fare. Su queste cose, sulle cose da fare dobbiamo misurare il grado di convergenza con gli alleati, non su astratte esercitazioni di federazioni, di alchimie o di organigrammi. Perché se convergeremo su programmi concreti, ci ritroveremo davvero uniti. Quando, invece, tutti viviamo nella rarefazione del nulla politico, allora prevalgono le ragioni della divisione, anche se al fondo c'è la possibilità di attingere a una comune cultura e a un comune disegno etico-politico.
Io vi chiedo oggi: giochiamo tutti insieme, sulla base di queste premesse, la partita, perché credo che il Partito Popolare non abbia finora giocato davvero con la sua casacca, con la sua identità.
Perché credo che negli ultimi due anni non ha giocato mai una sua partita!
Questo è il mio disegno, la mia proposta, il mio programma d'azione, che nelle sue ragioni di fondo si pone in alternativa all'esperienza vissuta finora, in alternativa anche all'immagine che noi abbiamo offerto all'esterno. Intorno a queste cose, che vado dicendo da tempo, senza alcuna pretesa di primogenitura, con convinzione e con costanza, qualche volta sbeffeggiato più di quanto la dialettica interna possa consentire, io avevo ipotizzato la convergenza con Pierluigi Castagnetti: su questo programma e su queste ragioni! Io che pure nell'ultimo Consiglio Nazionale, quello chiamato a riflettere sulle cause della sconfitta alle europee, ho tentato di evitare che le critiche pur giuste alla condizione del partito creassero ostracismi personali.
Speravo, su questa strada, di costruire un percorso che ci potesse consentire di realizzare quest'immagine diversa, radicalmente diversa. Lo avevo ipotizzato. Dobbiamo parlare oggi con grande franchezza, senza dietrologia sulle candidature alla segreteria, chiarendo tutti i passaggi.
Ma questo progetto non è andato al di là della speranza; non è andato al di là di un tentativo.
Vi posso dire, con franchezza e con qualche punta insieme di orgoglio e di umiltà, che sono appassionatamente pago del ruolo, che svolgo, di Ministro dell'Università e della Ricerca Scientifica. Sono grato al partito di avermi concesso questa occasione che, vi confesso, mi fa sentire gravato della responsabilità grande del governo di un settore al quale si legano le speranze di un Paese che sulla formazione e sulla ricerca misura la capacità di puntare al futuro. Avevo ed ho, però anche l'ambizione di concorrere a questo progetto di nascita nuova del Partito Popolare nella concretezza della azione politica e senza porre alcun problema di ruolo personale. Avevo dato la mia disponibilità a concorrere alla realizzazione di un progetto. Ma questo colloquio io l'ho visto interrotto e morire sul nascere. Perché io sono stato a Brescia, gli amici lombardi lo sanno. Ho tentato. Non ho avuto più possibilità di interlocuzione.
Ma a questo silenzio io ho visto sovrapporsi una condizione nuova: la condizione di un impegno penetrante, personalizzato della segreteria e dell'apparato della segreteria per il candidato Castagnetti. E questo è un fatto che mi è sembrato contraddittorio con l'esigenza di marcare nettamente una discontinuità, che è condizione essenziale e primaria per un nostro rinnovato accreditamento presso l'opinione pubblica. Lo dico senza acrimonia verso Marini. Marini ha detto ieri che le vie della Provvidenza sono infinite. Io lo so, e glielo auguro per le sue esperienze, le sue capacità. Fanfani ripeteva che la politica è fatta di cadute e di resurrezioni. Io credo che per ognuno ci potranno essere ruoli diversi.
Ma è necessario, in questo momento, un ricambio nella dirigenza.
E allora, di fronte a questo doppio dato, l'interruzione del dialogo con Castagnetti e questa novità, che, tra l'altro, la dice lunga sui poteri reali delle segreterie e sul loro uso disinvolto, è nata la mia candidatura. Una candidatura ancor più a rischio per la tardività con la quale essa si presenta, ma la tardività nulla toglie a questa esigenza di testimoniare con forza queste ragioni e questo progetto.
Io vi chiedo di ritrovare tutti insieme l'orgoglio per provare a costruire questa nuova immagine del partito dal punto più basso della cifra elettorale forse dal punto più basso della credibilità. Io vi chiedo di provare tutti insieme questo cammino di risalita. So che pesano su di noi molte incertezze, incertezze esistenziali. Incertezze che gravano anche sulla politica continentale: non sappiamo, per esempio, che cosa avverrà in Europa del nostro partito popolare. Non sappiamo che cosa sarà di noi. Abbiamo tutti grande incertezza. Vorremmo tutti essere già a quel domani che ci possa far conoscere scenari che oggi non riusciamo a intravedere. Ma se Moro fosse qui con noi ci direbbe che oggi è il tempo che ci è dato vivere. Oggi c'è il dovere di corrispondere con la nostra responsabilità e con il nostro coraggio alle esigenze di questo momento, che sono le esigenze di riproporre con forza, con serenità, con orgoglio, il progetto del Popolarismo, che è il progetto di una forza che vuole essere ancorata all'ispirazione cristiana e che vuol fare della liberaldemocrazia la sua bandiera.
A questo progetto io lego, care amiche e cari amici delegati, la mia candidatura alla guida del partito. E dico questo sapendo di osare tanto, ma questo è l'impegno che io intendo assumere qui davanti a voi.